Jean Thiriart scriveva nel 1985: “L’URSS è diventata l’unica grande potenza europea ancora in libertà, ancora indipendente. Ciò le attirerà parecchie noie. Anche un’URSS diventata liberale (come una Germania liberale nel 1939) vedrebbe contestare la propria potenza dalla prima potenza oceanica, gli Stati Uniti. Per una sorta di fisica storica, gli Stati Uniti devono indebolire e perfino scompaginare l’URSS[1].

Una formula forte come “Mosca ha perso” non vuole essere un commento alla situazione tattica sul campo. Lasciamo agli esperti militari l’interpretazione dei fatti in quotidiana evoluzione sul terreno. Quello su cui vogliamo fermare l’attenzione non è il trascinarsi della guerra, ma l’aspetto strategico, per non dire ontologico, che invece ha subito profondi mutamenti negli ultimi decenni. 

Se soltanto a metà degli anni ’90 fosse stata prospettata la possibilità dell’attuale sistemazione dei confini, degli equilibri e di identità nello spazio orientale dell’Europa, si sarebbe pensato allo scherzo di qualche inguaribile occidentalista. 

La Russia ha sempre riconosciuto il proprio carattere europeo come una delle eredità più importanti e più decisive della sua storia. Il fatto che questa eredità venga oggi severamente messa alla prova rischia di comportare una mutilazione culturale sia per la Russia sia per il resto dell’Europa. 

Ci siamo spesso interessati al punto di vista strettamente europeo occidentale[2], ma non possiamo non interessarci anche a quello che riguarda la parte orientale dell’Europa, che consideriamo la nostra casa e la nostra ricchezza in tutta la sua diversità culturale. 

Dal punto di vista russo, l’idea che Kiev, situata sul margine della casa russa, sia ora divisa da un confine “cibernetico”, trasformata in uno spazio di crisi in guerra civile permanente, è sicuramente una grave ferita. Questi spazi di passaggio fra culture, se coltivati nella diversità possono prosperare e fare la ricchezza di tutto il continente; ma se sono tenuti separati in vitro, tutto l’organismo sociale e culturale ne risulta indebolito. Si palesa la geopolitica del caos. 

L’influenza che gli Stati Uniti esercitano sulla parte occidentale dell’Ucraina è uno dei colpi che la Russia ha dovuto subire e che in questo momento, suo malgrado, deve sopportare. L’idea, legittima e sana, di rivolgere l’attenzione verso la parte siberiana dello spazio russo[3], pur essendo da sempre presente, è comunque una reazione, una risposta “resiliente” al duro colpo ricevuto ad ovest. Questo colpo è condiviso con il resto della parte occidentale del Continente: se i Paesi facenti parti dell’Unione Europea devono ora sobbarcarsi il finanziamento di una ricostruzione antirussa, Mosca si ritrova in casa un minaccioso avamposto. 

Anche per quanto riguarda l’Asia centrale, oggetto della bramosia anglosassone sin dall’epoca del “grande gioco”, Mosca deve costantemente parare i colpi di un’amministrazione statunitense che, dopo avere raccolto il testimone inglese, continua a rappresentare una sfida costante, fino agli ultimi incontri con i rappresentanti dei giganti centroasiatici su suolo statunitense. 

Questa pressione, questa minaccia costante, è evidenziata da un dato oggettivo che descrive meglio di altri la condizione della Russia, la quale probabilmente ancora sconta il tracollo degli anni ‘90. Basterà richiamare all’attenzione il fatto che, se fino al 1999 il confine fra Russia e NATO misurava circa 1200 chilometri, oggi è più che raddoppiato in seguito all’ingresso dei nuovi Stati dell’Est europeo: il confine diretto condiviso fra NATO e Russia è di circa 2500 chilometri. 

La spinta verso est di questa istituzione militare egemonizzata dagli Stati Uniti è evidente ed è evidente che a farne costantemente le spese è stata proprio Mosca.

Le dichiarazioni contenute nel Rapporto sulla strategia di sicurezza[4], che esprimono la necessità di fermare l’espansione della NATO e sono interpretate da alcuni come un freno statunitense alla guerra, destano davvero stupore. Infatti la NATO confina ormai con la Russia, dove mai potrebbe ancora espandersi? La corsa dell’Occidente verso est è terminata. 

La capacità russa di resistere è ammirevole, ma non riesce a celare la rinuncia ad uno sguardo di ampiezza europea. Tale rinuncia è dovuta al comportamento autolesionista dei Paesi dell’Unione Europea, che hanno congelato i rapporti economici e culturali con Mosca, a tutto vantaggio della vera potenza occidentale: gli Stati Uniti d’America, unico Stato con il quale l’odierna Russia riesce a dialogare. È quindi evidente che questa scelta, che si accompagna all’idea di dover spostare la propria attenzione verso oriente, non è stata una scelta di sviluppo, ma è la risposta a quella che può essere considerata una rinuncia di Mosca. Si tratta della rinuncia ad uno spazio che fino a trent’anni fa dialogava con la Russia e con l’Europa occidentale e che oggi invece è diventato una cortina di acciaio, armata fino ai denti dalla NATO, e incapace di vedersi come uno spazio di dialogo fra culture affini. 

Questa situazione è conforme alla visione strategica coerentemente espressa negli anni da molti analisti nordamericani, ma non sembra per nulla rispecchiare gli interessi e i desideri dell’Europa, né ovviamente della Russia. Lo stesso rapporto cordiale che Mosca cerca di instaurare con l’amministrazione Trump sembra corrispondere ad una debolezza che ricorda da vicino la sudditanza europea nei confronti di Washington. 

Ci sembra importante procedere al riconoscimento di questa mutua sconfitta, perché per elaborare una visione alternativa all’attuale sistemazione così limitante per il Continente, non si può che passare per una volontà di dialogo e di consapevolezza in tutto lo spazio comune, da Lisbona a Vladivostok e oltre, per il futuro dei popoli che in queste terre hanno le proprie origini e il proprio avvenire. 

Jean Thiriart nella prima metà degli anni ‘80 scriveva: “L’URSS deve scegliere fra tre opzioni: essere con l’Europa, essere senza l’Europa, essere contro l’Europa. Nel secondo e nel terzo caso essa crollerà; non ha possibilità perché non ha respiro[5]

Dove c’era l’Unione Sovietica oggi c’è una Russia ridimensionata, che, se non vuole perdere se stessa, deve condividere con l’Europa la necessità di tornare a respirare, rielaborando una visione geopolitica comune.


NOTE

[1]   Jean Thiriart, L’impero euro-sovietico da Vladivostok a Dublino, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2018, p. 201.

[2] https://ivory-okapi-700485.hostingersite.com/una-nuova-pugnalata-alla-schiena-e-la-sconfitta-delleuropa/

[3] https://www.cese-m.eu/cesem/2025/07/la-siberianizzazione-e-la-ricerca-di-una-nuova-piattaforma-civilizzatrice/

[4] https://ivory-okapi-700485.hostingersite.com/promuovere-la-grandezza-europea/

[5] Jean Thiriart, L’impero euro-sovietico da Vladivostok a Dublino, cit., p. 202.


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